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Segreto bancario: Il Fisco entra anche senza permesso …. giudiziario.

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#pinomerola
La sentenza della Corte di Cassazione n. 10573 del 13 maggio 2011  afferma che “il segreto bancario nulla può contro l’accertamento di reati tributari”.
L’oggetto di causa si riferiva ad una verifica, sui conti correnti bancari intestati ad un collaboratore dell’imprenditore, che assumeva “rilievo penale”.

L’autorizzazione precedentemente concessa dalla Procura della Repubblica, nel corso delle indagini, veniva revocata, in quanto la soglia di punibilità del reato ascritto era stata innalzata. Di conseguenza cadeva la resposanbilità penale riguardante il collaboratore dell’Imprenditore ( quest’ultimo verificato intanto per evasione fiscale). 
Nel frattempo, però, la Guardia di Finanza essendo entrata in possesso degli estratti conto del collaboratore aveva emesso avviso di rettifica ai fini IVA nei confronti dell’imprenditore-datore di lavoro. Difatti, a supporto dell’accertamento tributario, era stato riscontrato che ques’ultimo aveva la delega su tutti i conti controllati, e quindi gli stessi, per ricostruzione logica, erano stati intestati solo fittiziamente  al collaboratore.
La C.T.P. in prima battuta dava ragione al ricorrente dichiarando illegittima la rettifica IVA operata dall’Ufficio delle Imposte. 
Successivamente a seguito di appello dell’Ufficio, la C.T.R. riformava la precedente sentenza, dichiarando irrilevante la mancanza di autorizzazione, a seguito della sua revoca, e confermando quindi la legittimità dell’operato dell’Ufficio finanziario.
Secondo la Commissione Tributaria Regionale infatti la mancanza dell’autorizzazione da parte della Procura, diventava un mero discorso interno, tanto più che l’imprenditore, che era stato raggiunto dall’avviso di rettifica, come sopra detto, aveva la delega ad operare sui conti del collaboratore. 
L’onere della prova, quindi, ricadeva su quest’ultimo che avrebbe dovuto controdedurre, con fatti probanti, l’inesistenza di connessione con la sua attività d’impresa. Ragion per cui gli venivano addebitate sia le posizioni di credito che di debito dei conti correnti controllati.

La questione giunta in Cassazione, veniva di nuovo affrontata dai giudici costituzionali, i quali rigettando il ricorso del contribuente affermavano che “secondo i principi di diritto nessun segreto può essere valido per l’opposizione ad un accertamento tributario anche se nella fattispecie, riguardava un collaboratore dell’imprenditore.

Nelle conclusioni, la Cassazione, argomentava che la revoca dell’autorizzazione giudiziaria per l’accesso ai conti non pregiudica la possibilità di utilizzare i dati acquisiti in materia tributaria, visto che in tale ambito non vige il principio – come nel procedimento penale – della non utilizzabilità di una prova non ritualmente acquisita, salvo i limiti che scaturiscono da preclusioni di ordine specifico (Cass. 7279/2009 e 4987/2003).
Nella fattispecie, l’autorizzazione della Procura della Repubblica, occorrente per “violare”   – per modo di dire –  il segreto bancario, proprio in quanto rilevante penalmente è posta, pedissequamente, al solo scopo di tutelare le indagini in riguardo al rilievo penale.
Conseguentemente la trasmissione dei dati acquisiti dalla Guardia di Finanza non tocca l’efficacia probatoria delle prove acquisite nei  termini che riguardano il solo reato tributario. 
La Cassazione in ultimo rigettava il ricorso del contribuente e dichiarava legittimi gli avvisi di accertamento elevati nei confronti dell’imprenditore per evasione fiscale ai fini IVA.
Fonte Fiscooggi. Rielaborazione Rag. Giuseppe Merola Sapri.

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