2 Settembre 2020
All’ufficio basta solo fornire indizi validi come presunzioni di maggiori ricavi, mentre è onere del contribuente provare, con idonea documentazione, la regolarità del proprio operato
In tema di accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa delle persone fisiche, la discordanza tra incassi ricevuti con moneta elettronica e documenti fiscali emessi sposta sul contribuente l’onere di dimostrare l’assenza di irregolarità, da fornire con la prova documentale a riprova degli introiti contestati o dimostrando l’avvenuta registrazione e contabilizzazione dei ricavi connessi ai pagamenti disposti con Pos e carte di credito. Questo il contenuto dell’ordinanza n. 15586 del 22 luglio 2020 della Corte di cassazione.
I fatti
Il caso riguarda un avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle entrate ha ripreso a tassazione il maggior reddito imponibile, nei confronti di un imprenditore esercente attività di commercio al dettaglio di capi d’abbigliamento, accertato con modalità analitico-induttiva.
L’ufficio aveva contestato la mancata corrispondenza, nel periodo d’imposta in osservazione, tra gli scontrini emessi dall’esercizio e i pagamenti ricevuti con moneta elettronica nello stesso periodo, con la rilevazione di maggiori incassi per i quali non erano stati riscontrati i connessi scontrini fiscali.
Il ricorso proposto dal contribuente è stato accolto dalla Ctp sulla motivazione che la metodologia di accertamento utilizzata dall’Agenzia delle entrate fosse illegittima per mancanza dei requisiti di legge, essendo fondata esclusivamente sul raffronto tra scontrini e pagamenti effettuati in moneta elettronica, tramite Pos e carte di credito. Il giudice di primo grado ha ritenuto plausibile, come dedotto dalla parte, che la discrepanza fosse da addebitare a un mero differimento nella stampa dello scontrino rispetto al momento del pagamento, legato all’effettuazione di successivi lavori sartoriali sui capi venduti.
In riforma della decisione di primo grado,
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