Secondo quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione, il fallito che intraprende una nuova attività in proprio deve versare al fallimento, chiuso precedentemente, una parte dei guadagni conseguiti e non dei ricavi lordi.
“In assenza di determinazione, da parte del giudice delegato, delle somme che il fallito è autorizzato a trattenere, dovrà essere il giudice penale ad effettuare, incidentalmente, la valutazione richiesta dall’art. 46 della legge fallimentare, avendo mente alle esigenze del fallito e della sua famiglia”.
E’ uno stralcio della sentenza n. 24493 del 5-6-2013 con cui la Corte di Cassazione ha stabilito la nullità di una precedente condanna a carico del fallito – per bancarotta fraudolenta post fallimento – per presunta distrazione di beni della nuova attività imprenditoriale intrapresa.
La Corte ha stabilito anche che: “Il reato di bancarotta post fallimento si concretizza nella distrazione delle somme pervenute ai fallito per l’attività esercitata successivamente alla dichiarazione di fallimento, qualora dette somme superino i limiti determinati dai giudice delegato in relazione a quanto occorre per il mantenimento dell’imprenditore fallito e della famiglia, ai sensi dell’art. 46 comma 1 n. 2, ed ultimo comma della Legge sul Fallimento”.
La Cassazione ha precisato “che è onere del fallito dare la prova, anche per via induttiva, dei costi sostenuti nell’esercizio della nuova impresa”.
Inoltre: “Nel fallimento non vanno riversati i ricavi lordi della nuova attività esercitata dal fallito dopo il fallimento, ma i guadagni netti conseguiti; con la conseguenza che, per stabilire se il fallito abbia sottratto beni alla massa fallimentare, occorre tener conto dei costi da lui incontrati nella gestione dell’attività, dovendosi per l’effetto considerare distratte le somme che rappresentano il guadagno effettivo ed eccedente i limiti stabiliti dai giudice delegato”.