I provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria per far fronte all’emergenza sanitaria di questi giorni hanno scatenato rivolte in molte carceri. Ma la situazione di oggi mette a nudo problematiche antiche, che ora richiedono soluzioni urgenti.
La scintilla delle rivolte
Tutti gli studi sociologici spiegano che il carcere è un punto di osservazione particolare attraverso cui è possibile studiare la società e valutarne il grado di civiltà. È da questa convinzione che occorre partire per interpretare gli avvenimenti che hanno sconvolto le nostre carceri in questi giorni: in ventidue istituti sull’intero territorio nazionale sono avvenute sommosse; nelle carceri di Modena e Rieti tredici reclusi hanno perso la vita; a Foggia ne sono evasi 75; a Melfi e Pavia sei agenti penitenziari sono stati sequestrati; a Rebibbia 90 agenti della polizia penitenziaria sono rimasti feriti.
La scintilla da cui sono scaturite le rivolte sono stati i provvedimenti giustamente adottati dall’amministrazione penitenziaria per far fronte all’emergenza sanitaria: interruzione dei colloqui con i familiari (rimane comunque la possibilità di fare tre telefonate alla settimana di dieci minuti e di utilizzare la piattaforma Skype), sospensione dei permessi premio, dei provvedimenti di ammissione al lavoro all’esterno, imposizione di restrizioni ai rapporti dei carcerati con il mondo esterno (viene limitato l’accesso a volontari e associazioni).
Perché queste misure abbiano scatenato le inaccettabili violenze degli scorsi giorni è una domanda a cui non è possibile dare una risposta univoca.
Certamente, vi è stato un difetto di comunicazione tra le autorità e la popolazione detenuta: le ragioni che giustificano le misure adottate non sono state spiegate, o comunque non sono state comprese. Anche la componente emotiva ha svolto un ruolo importante: la preoccupazione per il diffondersi dell’epidemia – che tutti noi cittadini liberi proviamo – ha inevitabilmente colpito, nelle forme più accentuate,