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Prima parte: gli aspetti civilistici e fiscali
La riforma delle professioni (articolo 10, Legge 183/2011, D.L. 1/2012) ha introdotto la possibilità di costituire società tra professionisti (stp) sulla base dei modelli societari previsti dal codice civile, facendo salvi i diversi modelli associativi vigenti (e ciò nonostante l’abrogazione della Legge 1815/1939 che disciplinava le associazioni professionali). Rispetto alla normativa civilistica di riferimento per le stp, coincidente con quella propria della tipologia di società prescelta dai soci, più controverso appare il quadro normativo dello studio associato, soprattutto con riferimento alle ipotesi che possono modificare l’organizzazione dell’associazione. Si pensi, ad esempio, allo scioglimento del rapporto sociale a seguito di morte, recesso o esclusione del singolo socio.
Sul piano civilistico le associazioni professionali sono state considerate da dottrina e giurisprudenza, pur con qualche variante interpretativa, alla stregua di contratti associativi con rilevanza esterna, a cui si sovrappone il principio della personalità della prestazione. L’organizzazione di tali strutture associative è stata generalmente equiparata a quella delle società semplici, strutture societarie aventi natura economica ma non commerciale.
Tale equiparazione, ai fini delle imposte sui redditi, è invece espressamente prevista dall’articolo 5, comma 3, lett. c, TUIR, coerentemente con la natura economica, ma non commerciale, dell’attività professionale. Sul punto la risoluzione AdE 142/E/2008 ribadisce che il reddito prodotto dallo studio associato viene attribuito ai singoli associati, indipendentemente dalla percezione effettiva, in forma di reddito di partecipazione (articolo 5, Tuir). Le modalità di ripartizione degli utili conseguiti dallo studio associato vengono stabilite nel relativo statuto.